Venice, Italy

Vittorio Marchiori

A Venezia è tutto più difficile.

In uno spazio che si vuole conservare "com'era, dov'era" sotto la tenda a ossigeno del turismo più o meno di massa, qualsiasi attività sembra turbare lo stagno lagunare.

Anche la quotidianità mette a repentaglio il sonno del caro estinto. È molto più semplice trovare una reliquia del passato, made in Murano od Hong Kong poco importa, che un litro di latte o un cd.

Eppure la struttura, la storia, le condizioni di vivibilità della nostra città mantengono delle potenzialità inespresse.

Eppure nella formalina settecentesca che circonda uomini e donne del Duemila cresce una civitas che intreccia necessità e bisogni contemporanei a sensibilità e relazioni più antiche, verrebbe da dire più umane, ormai dimenticate o sconosciute nelle città di terra.

Con loro e tra loro è stato possibile pensare, discutere, realizzare la "casa vestita".

Grazie non solo ai loro vestiti, ma alle loro "ciacole", "ombre", "spritz", a tutto ciò che ha reso centrale campo Santa Margherita nella vita quotidiana di Venezia e dei neoveneziani, questo è stato realizzato.

Vestire una casa, e che casa, è anche ridare voce a una comunità i cui confini non sono delimitati dall'ambiente lagunare, ma è quella Venezia presente ovunque: nella Belleville di Pennac o nella Cina di Acheng, tra le opere di Oldenburg e le architetture di Calatrava.

A questa realtà non va negata la sua radice, non nella versione plasticata sotto vetro ricostruita in Florida, ma quella di Castello, di Santa Marta, della Giudecca.

I fili di biancheria rivestono il vuoto tra casa e casa, quasi un controcampo all'opera di Matej, il necessario completamento di una città in trasformazione, in perenne bilico tra un'identità ormai perduta e una da inventare.

Stephen Jay Gould a proposito dell'evoluzione umana parla di hopeful monster, esseri mutanti di transizione che vivono nelle tenebre in attesa del passaggio evolutivo.

Mi piacerebbe che la "casa vestita" fosse intesa come una "mostra" piena di speranza.