Gli abiti per la storia:
un tentativo di racconto

Dario Pinton

"Scuola dei Varoteri" dal latino varium: vario, screziato, maculato come la pelliccia grigia usata un tempo per abiti di magistrati e dignitari detta appunto varium.

Varotèri ovvero pellicciai.

L'edificio della Scuola si presenta allo sguardo come qualcosa di eccentrico rispetto al resto dell'architettura veneziana: sorge solitario nello spazio di campo Santa Margherita come un oggetto teatrale al centro della scena della città. Gli edifici a Venezia piuttosto che trasmettere l'idea della solidità che di norma accompagna l'architettura, costruiti uno accanto all'altro, danno l'impressione di essere di fronte a una superficie pittorica, affine a una tela dipinta. Proprio per il suo isolamento invece la massa architettonica della Scuola dà l'impressione di una scultura, di un oggetto plastico.

Le Scuole, confraternite di origine medioevale, erano sia delle associazioni laiche con scopi devozionali che associazioni di arti e mestieri. Molte erano proprietarie di un edificio, chiamato anch'esso Scuola che costituiva la sede sociale dell'organizzazione, mentre altre più modeste possedevano solo un altare in una chiesa.

Fenomeno complesso per articolazione, le Scuole unificavano in sè la dimensione religiosa, assistenziale, politica, sociale, architettonica e artistica: la presenza delle Scuole nel tessuto sociale e urbanistico di Venezia era massiccia, a testimonianza di una vitalità che superava i semplici termini devozionali e mercantili. La tipologia architettonica della Scuola prevedeva a piano terra una sala per le cerimonie, al piano superiore la sala capitolare per le riunioni comunicante con una più piccola detta Albergo dove venivano conservati gli oggetti preziosi di proprietà della Scuola e dove si riunivano i membri del governo.

Gli ambienti erano spesso decorati con pitture che illustravano di solito la vita e i miracoli del santo patrono.

La "Scuola dei Varoteri" non è sempre stata così isolata, e non è sempre stata in campo Santa Margherita. La prima sede era ai Crociferi, oggi Gesuiti, nel sestiere di Cannaregio da cui fu spostata nella sede attuale nel 1725 edificata in riva a un rio oggi interrato.

L'attuale campo Santa Margherita, oggi privo di affaccio diretto su un canale, era in passato invece delimitato a sud da un rio comunicante col rio di San Barnaba con due bracci. Questi due rami sono oggi chiamati uno rio terà Canal, l'altro rio terà della Scoazzera. Le Scoazzere erano "un chiuso quadrato di muro, senza tetto, e aperto d'innanzi, ove si raccoglievano le spazzature, dette in vernacolo scoazze, finché i burchieri, o burchiellanti, le avessero trasportate fuori città" (Tassini, Curiosità veneziane, Venezia, Ed. Filippi, 1933).

Sulla riva del canale sorgeva l'edificio, separato dalle case perché probabilmente anche deposito di pellame, che di certo non doveva emanare un buon odore, e perché queste stesse pelli potevano essere trasportate con barche.
Quando nel 1725 viene costruito il nuovo edificio della Scuola in campo Santa Margherita, i Varoteri vogliono che esso riproduca fedelmente l'antica sede demolita ai Crociferi. La ricostruzione non avviene secondo i gusti settecenteschi ma conservando la memoria del vecchio edificio con la riproposizione della forma, la ricollocazione in facciata del rilievo della Vergine con Bambino adorati dai confratelli e riciclando i capitelli scanalati sui pilastrini alla base dell'arco delle finestre. Dopo il 1810 l'edificio venne adibito a deposito di carbone, poi ospitò una "Scuola di mistica fascista" da cui forse deriva l'appellativo popolare di "casa del boia", e infine la sede di un partito politico. Oggi vi troveranno posto uffici comunali.

Al di là dello spirito conservatore che caratterizza parte della società veneziana che ci invita a vedere la Scuola come segno della resistenza alle trasformazioni che avvengono nel tempo, abbiamo nell'edificio dei Varoteri il visibile e concreto deposito della memoria. Ricordarsi dei fatti, di cose, vuol dire cercare di stabilire un legame tra quello che è stato e ciò che è, il filo della memoria unisce l'apparenza delle cose attraverso richiami e analogie, crea trame, abiti mentali, vestiti per la storia che ci possono indicare percorsi possibili, storie praticabili. Tenere insieme cose o parole in un racconto è produrre senso, altro non è che ripetere ciò che abbiamo visto e che ci è capitato.
"E quello che possiamo fare è chiamare le cose, perché vengano a noi coi loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci Chiama le cose, perché restino con te fino all'ultimo". (G. Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989).