Le case sono nude?

Tiziano Scarpa

A Venezia le case sono talmente nude da mostrare le viscere: intubano nella carne le arterie dell'acquedotto e gli intestini nelle fogne, ma il sistema nervoso dei cavi elettrici e dei fili del telefono spesso scorre sopra pelle.

A Venezia le case hanno ciglia e tentacoli, sono piene di filacci e carrucole dove stendere i panni.

A Venezia le cordicelle della biancheria rasentano l'intonaco sotto le palpebre degli scuri e dei davanzali, oppure si agganciano dall'altra parte della calle, attraversano in diagonale interi campielli.

A Venezia dalle finestre partono trenini di mutande, carovane di calzini, processioni di canottiere che avanzano cigolando sui binari di corda.

A Venezia nessun vigile ti dà la multa se stendi fuori la biancheria ad asciugare, come invece succede nelle altre città.

A Venezia i vestiti non si limitano a esplorare la superficie e la profondità, non si accontentano di foderare la pelle umana ed esplorare il misterioso gorgo vorticante della lavatrice.

A Venezia i vestiti sanno come diventare bandiere e gonfaloni, stendardi e gagliardetti.

A Venezia l'introverso reggiseno sbalordisce per quante cose si imparano standosene ad ascoltare i battiti del cuore di una ragazza, sepolti sotto strati di maglie: sarà per questo che ogni tanto si lascia spifferare dai quattro venti attraverso i suoi merletti bucherellati come segreti.

A Venezia il riservato lenzuolo imbusta lettere personalissime fatte di corpi abbracciati: sarà per questo che ogni tanto perde la testa, si sente gonfio d'amore e affamato d'infinito, cerca di far salpare la casa come una vela fissata con le mollette alle sartie.

A Venezia i palazzi si vestono con l'impermeabile da investigatore per coprire le impalcature dei restauri.

A Venezia c'è una casa dove i vestiti sono cresciuti sull'intonaco come un'edera rampicante.

A Venezia c'è una casa che si è avvolta come un rocchetto con la cordicella del bucato piena di vestiti: è stato un momento di autodisciplina, la casa aveva paura di impazzire, ha voluto catturarsi, mettersi una camicia di forza fatta di camicette, di magliette.

A Venezia c'è una casa dove i tentacoli del bucato hanno circondato tutto l'intonaco: è stato un momento di tenerezza, ha sentito il bisogno di abbracciarsi da sola.

L'abito è comunque sempre rigido simbolo di appartenenza. I lebbrosi venivano avvolti da tuniche particolari e portavano campanelli per monili. Il re Sole era costretto in fasce di merletto ad ago di fili d'argento e doro. Sete e panni di lana, maniche e cinture definivano inequivocabilmente i mestieri. Le prostitute, simbolicamente, erano raffigurate nei ritratti a olio adorne di perle forate.

L'abito era chiamato in ogni epoca e in ogni paese a dichiarare il sesso di chi l'indossava, costume che si sta diluendo, rivoluzione di fine millennio, sorprendente e unica nella storia dell'abbigliamento. Le deroghe al rituale santuario legato al maschio o alla femmina erano punite anche col rogo. Giovanna d'Arco poté essere condannata a morte dai giudici per un solo crimine accertato: l'indossare reiteratamente i calzoni. I pantaloni, infatti, a partire dal medioevo erano rimasti privilegio assoluto del cosiddetto sesso forte. Eugène Delacroix, pittore e intellettuale d'avanguardia, vedeva i pantaloni per le donne un insulto diretto ai diritti dell'uomo.

Il papa, invece, al di sopra della mischia, continua a portare imperterrito, da millenni, le vesti come le donne. E il clargyman che riconduce i sacerdoti al rango di piccoli uomini, ha dovuto lottare con forza per imporsi sulla tonaca nera con i mille bottoncini. Uno scandalo. I nuovi uomini del 2000 vestiranno abiti di piume bianche per assomigliare più agli angeli? Sarà giusto? Sarà di buon gusto?

L'abito, maschera mutevole e rivelatrice, resterà sempre in bilico tra le oscillazioni implacabili dell'idea del giusto e del gusto.